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Nel dibattito sul training delle AI generative viene sempre più spesso avanzata un'argomentazione che pretende di risolvere una volta per tutte la questione legata alla proprietà intellettuale dei dati utilizzati per il training: il paragone con il clean-room reverse engineering. L’idea è che, se quella pratica è considerata legittima da decenni, allora lo sarebbe anche il modo in cui vengono addestrati i modelli di intelligenza artificiale. Un ragionamento di taglio tecnico che ambisce a liquidare il problema, presentandolo come già noto e già risolto.
Questa analogia viene usata per spostare la discussione su un piano puramente tecnico, come se dimostrare una somiglianza di processo fosse sufficiente a chiudere ogni questione di legittimità. Ma il nodo non è tecnico, o non soltanto: è giuridico e normativo. Riguarda chi può usare cosa, a quali condizioni, con quali limiti e con quali effetti sulla distribuzione del valore.
Nella prima parte di questo articolo analizzeremo nel dettaglio perché il clean-room reverse engineering e il training delle AI generative rispondono a logiche profondamente diverse, sia dal punto di vista tecnico sia, soprattutto, da quello giuridico. Nella seconda parte ci sposteremo invece sul piano delle conseguenze e delle prospettive, illustrando come l'introduzione di un impianto normativo chiaro sia una condizione necessaria per affrontare in modo coerente il tema del training delle AI e della distribuzione del valore che ne deriva.
Per un approfondimento su questi aspetti, rimando a due articoli già pubblicati:
L’immagine a corredo di questo articolo rappresenta una rielaborazione in stile "Ghibli" di un noto meme, realizzata tramite AI e ampiamente diffusa sui social network senza alcuna attribuzione: un esempio emblematico delle problematiche legate all’appropriazione di stili e alla legittimità dei processi di training.
Clean-Room Reverse Engineering
Il clean-room reverse engineering nasce per risolvere un problema molto concreto e tutt’altro che teorico: come realizzare un sistema compatibile con uno esistente senza violarne il copyright. Non si tratta, quindi, di una tecnica “furba” per copiare meglio, ma di un metodo pensato esplicitamente per evitare la copia, in un contesto in cui la compatibilità è necessaria ma l’accesso al codice originale non è consentito.
Il principio su cui si basa è semplice, ma estremamente rigoroso: ciò che può essere replicato è il comportamento funzionale di un sistema, non la forma espressiva con cui quel comportamento è stato implementato. Il diritto d’autore, infatti, non tutela le funzionalità in astratto, ma il modo specifico in cui esse vengono espresse, organizzate e codificate.
Un esempio particolarmente noto, che si presta bene a chiarire il funzionamento del clean-room, è quello di Compaq e del BIOS IBM. Per realizzare un BIOS compatibile senza violare i diritti di IBM, Compaq adottò una procedura molto precisa: due team distinti, tenuti rigorosamente separati. Il primo analizzava il BIOS originale e produceva una documentazione che descriveva esclusivamente il comportamento osservabile e le funzionalità necessarie, evitando deliberatamente qualsiasi riferimento al codice sorgente o alle scelte implementative. Il secondo team, che non aveva mai avuto accesso al BIOS originale, utilizzava solo quella documentazione per sviluppare un’implementazione compatibile.
Il punto decisivo non è tanto la separazione organizzativa, quanto ciò che ne deriva: il documento di riferimento non è una trascrizione né una rielaborazione del codice originale, ma una specifica funzionale astratta, progettata apposta per escludere ogni elemento espressivo. È questa astrazione forzata a fare la differenza.
Ed è qui che emerge il vero senso del clean-room reverse engineering. I vincoli non sono un dettaglio tecnico né una precauzione marginale: sono il fondamento giuridico dell’intero impianto. Il processo è costruito in modo tale da rendere la copia impossibile per definizione. In assenza di questi vincoli, non si potrebbe più parlare di reverse engineering legittimo, ma di violazione del diritto d’autore: in altre parole, appropriazione indebita.
Differenze con il GenAI Training
Per comprendere dove l’analogia con il clean-room reverse engineering fallisce, è necessario chiarire una distinzione preliminare che viene spesso evocata in modo superficiale: quella tra training e inference nelle AI generative.
In estrema sintesi, nel ciclo di vita di un modello di intelligenza artificiale generativa, il training è la fase in cui il sistema viene addestrato su grandi quantità di dati (testi, immagini, codice, audio) al fine di apprendere pattern, correlazioni e strutture statistiche; L’inference, invece, è la fase successiva, quella in cui il modello già addestrato viene interrogato per generare nuove risposte, senza accedere direttamente ai dati di addestramento originali.
È su questa distinzione che si fonda la difesa più ricorrente: poiché durante l’inference il modello non “consulta” le opere protette, ma utilizza esclusivamente i parametri appresi durante il training, il risultato sarebbe giuridicamente assimilabile a un documento di riferimento astratto, come quello prodotto in un processo di clean-room reverse engineering.
Secondo questa lettura, il training “vede” le opere protette, ma l’inference no. E dunque il problema sarebbe confinato a una fase tecnica ormai conclusa, priva di rilevanza giuridica per l’uso finale del modello.
Il problema è che questa ricostruzione è fuorviante, per un motivo molto semplice:
- Nel clean-room reverse engineering, il documento di riferimento non è un residuo tecnico del processo, ma un artefatto intenzionalmente progettato per essere astratto, funzionale e privo di elementi espressivi. È il risultato di vincoli deliberati, introdotti proprio per evitare la riproduzione di contenuti protetti.
- Nel training delle AI generative, al contrario, non esiste alcun meccanismo equivalente di astrazione forzata. Il modello non distilla una specifica funzionale neutra, ma incorpora — in forma statistica — strutture e pattern derivati direttamente da opere espressive. L’assenza di accesso diretto ai dati in fase di inference non elimina il fatto che tali opere abbiano contribuito in modo determinante alla formazione del modello stesso.
In altre parole, la distinzione tra training e inference non equivale a una separazione clean-room: è una separazione meramente funzionale e temporale, non concettuale né giuridica. Per questo motivo, l’analogia non regge: ciò che nel clean-room è impedito per principio, nel training delle AI generative è invece il presupposto stesso del funzionamento del sistema.
Per dirla in altre parole, il training di una GenAI non produce una specifica funzionale neutra, ma costruisce un modello statistico che incorpora pattern, strutture e correlazioni derivate direttamente da opere espressive. Non esiste alcuna clean room, né concettuale né operativa. Non esistono barriere progettate per evitare la riproduzione di elementi stilistici, narrativi o formali. Anzi, potremmo dire che il processo è deliberatamente opposto.
Come se non bastasse, la raccolta dei dati avviene in modo indiscriminato e massivo, senza limiti di scopo, senza selezione per astrazione, senza separazione dei ruoli. Il valore del modello cresce proprio nella misura in cui assorbe e rielabora l’espressività altrui.
Non siamo di fronte a una compatibilità funzionale, ma a una rielaborazione statistica dell’esistente, interamente fondata su opere di ingegno prodotte da altri.
Il falso dilemma: pro o contro l’AI
Chiarito questo punto, conviene sgomberare il campo da un equivoco ricorrente: criticare le modalità attuali di training non significa rifiutare l’intelligenza artificiale. Il problema, anche in questo caso, non è la tecnologia, ma come viene utilizzata - o meglio, per essere ancora più precisi, come viene costruita, addestrata e messa a valore.
Allo stato attuale, il training delle AI generative non è neutro per natura. In assenza di regole diventa uno strumento di estrazione sistematica di valore culturale e creativo, che favorisce chi può permettersi infrastrutture miliardarie e lascia agli altri solo le esternalità.
La necessità di un impianto normativo adeguato
A questo punto, il nodo centrale diventa difficile da aggirare: se vogliamo discutere seriamente della legittimità del training delle AI generative, il tema dei vincoli non può essere trattato come un dettaglio accessorio. Come nel caso del clean-room reverse engineering, non è l’esito del processo a determinarne la legittimità, ma l’architettura di regole che lo governa.
Oggi, più che un quadro regolatorio coerente, esiste un vuoto: un'area grigia in cui la tecnologia avanza rapidamente, mentre le regole faticano a stare al passo. Ma non si tratta solo di un problema di "ritardo" normativo: il nodo da risolvere è a monte, ovvero l'evidente assenza di un impianto pensato fin dall’inizio per disciplinare il training come attività strutturalmente non neutra e che dovrebbe prevedere una serie di presupposti normativi imprescindibili.
In primo luogo, il consenso e le licenze dei dati utilizzati per il training non possono essere un elemento implicito o presunto: devono essere espliciti, verificabili e coerenti con lo scopo per cui il modello viene addestrato. Allo stesso modo, la tracciabilità delle fonti non può restare un auspicio, in quanto dovrebbe essere una condizione necessaria per qualsiasi forma di responsabilità e redistribuzione del valore.
In questo quadro, anche i meccanismi di opt-out dovrebbero essere ripensati come strumenti reali di controllo, non come soluzioni meramente formali. E la compensazione per chi contribuisce valore culturale o creativo non può essere relegata a tema collaterale: è parte integrante di un ecosistema economico che voglia dirsi sostenibile e non puramente estrattivo.
Accanto a questi aspetti emergono poi esigenze più strutturali, che non riguardano singole correzioni marginali ma il modo stesso in cui il training delle AI dovrebbe essere concepito e regolato. Ad esempio, il training dei modelli dovrebbe essere accompagnato da una dichiarazione esplicita dello scopo. Non è un dettaglio formale: sapere perché un modello viene addestrato è una condizione necessaria per stabilire come e a quali condizioni i dati possano essere utilizzati.
A questa dichiarazione dovrebbe inoltre affiancarsi una distinzione chiara tra le diverse finalità d'uso. Ricerca, uso pubblico e sfruttamento commerciale non sono categorie sovrapponibili e non possono essere trattate come tali. In assenza di questa distinzione, ogni modello diventa potenzialmente riutilizzabile in modo illimitato, con effetti che vanno ben oltre l’ambito tecnico e incidono direttamente su mercato, cultura e potere contrattuale.
È qui che il parallelo con il clean-room può tornare utile, anche se in un senso opposto a quello spesso proposto nel dibattito pubblico. Come nel clean-room reverse engineering, anche nel training delle AI la legittimità non può essere affidata alla buona fede degli attori coinvolti né valutata ex post sulla base dell’output finale: deve essere costruita "by design", attraverso vincoli chiari, verificabili e non aggirabili, che definiscano a monte cosa è lecito fare e cosa no.
In assenza di un impianto normativo di questo tipo, il risultato è sotto gli occhi di tutti: pochi grandi attori privati che concentrano infrastrutture, dati e capacità computazionale, rafforzando posizioni dominanti difficilmente contendibili. In questo contesto, l'Intelligenza Artificiale rischia di diventare non tanto uno strumento di diffusione della conoscenza, quanto un potente moltiplicatore di asimmetrie già esistenti.
Un’alternativa che vale la pena discutere
È a questo punto che il dibattito tende a irrigidirsi. Ogni richiesta di regole viene rapidamente liquidata come un tentativo di “frenare il progresso”. Ma questa contrapposizione, oltre a essere sterile, è anche fuorviante. Esiste infatti un’alternativa che meriterebbe di essere discussa con maggiore serietà: trattare i grandi modelli linguistici come infrastrutture collettive, anziché come proprietà esclusiva di singole aziende.
Un simile approccio potrebbe tradursi in modelli sviluppati o finanziati con risorse pubbliche, sottoposti a forme di governance trasparente, con accesso regolato e obiettivi esplicitamente orientati al beneficio collettivo. Non si tratterebbe di negare lo spazio all’innovazione privata, ma di riequilibrare un campo che oggi appare fortemente sbilanciato.
È uno scenario ambizioso, certo. Ma è anche uno dei pochi in cui una tecnologia di questa portata potrebbe davvero essere considerata “abilitante”, anziché puramente estrattiva.
Conclusioni: oltre la logica del "tutto o niente"
Il dibattito sull’intelligenza artificiale è spesso intrappolato in una contrapposizione sterile: da un lato chi invoca il rifiuto totale della tecnologia, dall’altro chi sostiene che qualsiasi limite imposto dall'alto rappresenti un freno inaccettabile all’innovazione. Oltre ad essere una falsa alternativa, questo modo di pensare è forse il principale ostacolo a una discussione davvero costruttiva.
L’intelligenza artificiale non va respinta a priori, né lasciata crescere senza regole in nome di un presunto determinismo tecnologico. Va compresa, governata e, in ultima analisi, civilizzata. Non perché sia pericolosa “in sé”, ma perché il modo in cui viene costruita, addestrata e messa a valore produce effetti concreti sul piano economico, culturale e sociale.
Senza regole chiare, il rischio è quello di un’appropriazione sistematica del valore su scala industriale, in cui pochi attori concentrano benefici e potere. Con un quadro normativo adeguato — o, meglio ancora, con un approccio che ponga esplicitamente al centro l’interesse collettivo — l’AI potrebbe invece diventare un’infrastruttura fondamentale del nostro tempo: potente, condivisa e più equamente distribuita.
Il vero bivio, ancora una volta, non è tra progresso e immobilismo, ma tra un progresso opportunamente governato, capace di produrre benefici diffusi, e una crescita lasciata interamente alle logiche dell’accumulazione.
